Patto di non concorrenza nei rapporti con i diversi soggetti

Lavoro e previdenza​

Il patto di non concorrenza del lavoratore dipendente

L’art. 2125 disciplina il patto di non concorrenza, uno strumento giuridico in forza del quale il datore di lavoro si obbliga a corrispondere una somma di denaro al lavoratore affinché quest’ultimo non svolga, per il periodo successivo alla cessazione del rapporto di lavoro, attività in concorrenza con quella del datore di lavoro. Si distingue dalla clausola di divieto di storno/sviamento di clientela, diretta ad impedire il compimento di atti e comportamenti funzionali a sviare la clientela verso un’altra impresa.

La finalità di tale istituto è quella di preservare il datore di lavoro da atti del dipendente che, una volta uscito dall’azienda, potrebbe utilizzare la competenza professionale e le capacità acquisite durante il pregresso rapporto, agendo in concorrenza con l’impresa di provenienza e recando così alla stessa un grave pregiudizio.

Tuttavia, il patto non può costituire una compressione della possibilità per il lavoratore di occuparsi nuovamente o di reinserirsi sul mercato, per questo la norma in questione stabilisce alcuni limiti entro i quali la pattuizione deve essere contenuta.

Il patto di non concorrenza è un vero e proprio accordo tra datore di lavoro e dipendente e può essere concluso contestualmente all’assunzione, ma anche in pendenza del rapporto di lavoro o dopo la sua conclusione; può essere una pattuizione autonoma rispetto al contratto o inserito come semplice clausola all’interno dello stesso; prevede, solitamente, due impegni da parte del lavoratore, divieto di concorrenza e obbligo di riservatezza, e a pena di nullità deve:

a)  avere la forma scritta con sottoscrizione del lavoratore; secondo la dottrina, lo scopo della forma scritta è quello di richiamare l’attenzione del lavoratore sull’oggetto del contratto, rendendolo consapevole della rinuncia alla libertà di scelta del lavoro.

b)  stabilire un vincolo limitato sul piano dell’oggetto, del luogo e del tempo.

– oggetto: il patto può riguardare qualsiasi attività lavorativa che possa competere con quella del datore di lavoro e non deve quindi limitarsi solo alle mansioni espletate dal lavoratore nel corso del rapporto; tuttavia, è nullo se comprime la possibilità per il lavoratore di esercitare la sua attività professionale tanto da comprometterne le potenzialità reddituali. Il patto deve consentire al lavoratore, dopo la cessazione del rapporto di lavoro, un margine di attività che gli permetta il raggiungimento di un guadagno adeguato alle sue esigenze personali e familiari.

– tempo: il co. 2 dell’art. 2125 c.c. indica i termini massimi di durata del patto, cioè 5 anni per i dirigenti e 3 anni negli altri casi.

– luogo: sono generalmente ritenuti nulli i patti che limitano lo svolgimento dell’attività lavorativa sull’intero territorio nazionale o comunitario; in tali casi, infatti, la salvaguardia degli interessi del datore di lavoro determinerebbe una troppo estrema riduzione del margine di possibilità di reimpiego per il lavoratore e di sua reimmissione sul mercato.

c)  prevedere un corrispettivo a favore del lavoratore. La corresponsione del compenso dovuto al lavoratore deve essere calibrata sull’effettiva durata del patto concordata tra le parti. Per quanto attiene alla quantificazione dell’indennità, la stessa deve essere certamente proporzionata e seppur sia difficile – anche per la giurisprudenza – individuare dei criteri oggettivi di riferimento, in via generale si ritiene che la somma per far ritenere valido il patto non possa essere inferiore alla misura del 30% della retribuzione annua del lavoratore dipendente. In ogni caso è assolutamente necessario che tale importo sia determinato o determinabile. È stato infatti ritenuto nullo per indeterminabilità il patto che prevedeva a favore del lavoratore un importo fisso per ogni mensilità fino alla cessazione del rapporto, in quanto non era possibile determinare ex ante, al momento della sottoscrizione dell’accordo, l’ammontare minimo dell’indennità (Trib. Venezia 2014 e Trib. di Monza 2019). Altresì se il patto di non concorrenza non prevede un corrispettivo economico, o lo prevede in misura simbolica, iniqua o sproporzionata, è ritenuto nullo.

Tale indennità può essere versata una tantum al termine del rapporto di lavoro, ovvero periodicamente, concordando un aumento percentuale fisso sulla retribuzione mensile, purché l’importo complessivo sia determinato a monte.

La violazione del patto di non concorrenza comporta per il datore di lavoro il diritto a: 1) chiedere la restituzione dell’indennità versata oltre al risarcimento dei danni subiti per l’attività concorrenziale dell’ex dipendente; 2) avviare una procedura d’urgenza ai sensi dell’art. 700 c.p.c. per imporre al lavoratore la cessazione dell’attività concorrenziale illegittima. In alcuni casi il comportamento illegittimo dell’ex dipendente può integrare una responsabilità penale qualora commetta una violazione del segreto professionale e aziendale (artt. 621-623 c.p.).

Il patto di non concorrenza del lavoratore autonomo

Oltre che dal lavoratore dipendente, è possibile che il patto sia sottoscritto dal lavoratore autonomo, in tal caso la disciplina applicabile è quella dell’art. 2596 c.c.

Tale norma ha finalità differenti rispetto a quelle sottese all’art. 2125 c.c.: l’intento del legislatore è impedire eccessive restrizioni alla libertà di iniziativa economica tutelando il mercato. La violazione del patto di non concorrenza, in tal caso, si configura quando l’obbligato intraprende un’attività economica nell’ambito dello stesso mercato in cui opera l’imprenditore, e purché si rivolga alla stessa clientela di questo, offrendo servizi che, seppur non identici, soddisfino le medesime esigenze di domanda finale.

Anche in questo caso i limiti sono prescritti dalla norma civilistica; il patto di non concorrenza sottoscritto dal lavoratore autonomo, infatti:

  • deve essere provato per iscritto e sottoscritto dalle parti;
  • è valido solo se circoscritto ad una determinata zona o ad una data attività;
  • non può eccedere la durata di 5 anni.

La differenza essenziale con la disciplina del patto disciplinato dall’art. 2125 c.c. è la mancata previsione di sanzioni in caso di mancata indicazione dell’indennità in favore del lavoratore che si sottopone convenzionalmente ai limiti concorrenziali: non è ritenuto nullo, pertanto, il patto di non concorrenza che non preveda alcuna indennità in favore del lavoratore autonomo.

Il patto di non concorrenza sottoscritto dall’amministratore di società

Come per i lavoratori autonomi, il patto di non concorrenza sottoscritto da un amministratore di società è disciplinato dall’art. 2596 c.c. e, pertanto, non è previsto l’obbligo che lo stesso debba essere indennizzato.

Occorre tuttavia porre attenzione al fatto che il codice civile impone un divieto di concorrenza dell’amministratore nei confronti della società in corso di rapporto ai sensi dell’art. 2390 c.c.; tale norma stabilisce per gli amministratori di società per azioni, che: “Gli amministratori non possono assumere la qualità di soci illimitatamente responsabili in società concorrenti, né esercitare un’attività concorrente per conto proprio o di terzi, né essere amministratori o direttori generali in società concorrenti, salvo autorizzazione dell’assemblea. Per l’inosservanza di tale divieto l’amministratore può essere revocato dall’ufficio e risponde dei danni”.

Per le società a responsabilità limitata, tuttavia, non è previsto un esplicito divieto degli amministratori ad agire in concorrenza con la società nel corso del loro mandato, pertanto è solo lo statuto della società medesima a poter prevedere se l’amministratore sia o meno tenuto al patto di non concorrenza.

Per quanto invece attiene al divieto di concorrenza per l’ex amministratore, occorre evidenziare che si applica la previsione dell’art. 2596 c.c.; parimenti ad un lavoratore autonomo, per esserne vincolato, è necessario che l’amministratore sottoscriva il patto di non concorrenza il quale sarà soggetto ai limiti di cui all’art. 2596 c.c. (dovrà essere provato per iscritto; limitato ad una data zona e determinata attività, non avere durata maggiore di 5 anni, ma soprattutto non dovrà essere necessariamente previsto l’indennizzo in suo favore).

Il patto di non concorrenza dei soci

Per quanto attiene invece ai soci di s.r.l., gli stessi non sono tenuti ad astenersi da attività concorrenziali con la società di cui sono titolari di quote; il divieto di concorrenza, infatti, è disciplinato dall’art. 2301 c.c., ove si fa riferimento soltanto ai soci delle società in nome collettivo e agli accomandatari delle s.a.s.

Se si intende, quindi, prevedere un obbligo di non concorrenza per i soci (tranne che nel caso in cui siano soci di snc e accomandatari di s.a.s.) deve necessariamente procedersi alla sottoscrizione del patto stesso da parte dei soci prevedendo l’inserimento di apposito patto parasociale nello statuto della società che preveda l’impegno di tutti a non svolgere attività in concorrenza con la stessa; in ogni caso tali patti, dovranno ricalcare il contenuto ed i limiti di cui all’art. 2596 c.c. Anche il patto parasociale avrà una validità massima di 5 anni e dovrà essere rinnovato alla sua scadenza.