Contrattualistica commerciale​

Russia-Ucraina, ecco cosa succede quando la guerra irrompe nei contratti

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AUTORE: Daniele Sorgente
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Mentre in Ucraina prosegue un sanguinoso conflitto, diverse aziende italiane si trovano loro malgrado nella necessità di far fronte a un altro tipo di emergenza, di gran lunga meno straziante eppure, di certo, con importanti ripercussioni operative e finanziarie. Il caso del quale ci occupiamo oggi, in particolare, è quello dell’impresa con sede in Italia che prima dell’inizio della guerra aveva già sottoscritto un contratto commerciale con un soggetto avente sede in Russia o in Ucraina, ad esempio per l’esportazione di prodotti o beni. Dopo le firme, le parti assistono alla deflagrazione del conflitto e, dunque, devono fare i conti con una situazione mutata, d’improvviso e notevolmente in peggio. Sto parlando, ad esempio, dell’azienda contraente che ha proprio sede in Ucraina e che dunque subisce in prima battuta le conseguenze della guerra, oppure dell’impresa russa con la quale – anche alla luce dei copiosi e frequenti interventi normativi UE (tra i molti, i Regolamenti 262/22, 427/22 e 428/22) – non è più possibile commerciare diversi beni.

Partiamo dall’analisi di un contratto disciplinato dalla legge italiana e sgomberiamo anzitutto il campo da una prima domanda ricorrente: esiste nel nostro ordinamento una norma di carattere generale che preveda la possibilità di ri-negoziare alcune clausole, ad esempio quelle sui tempi di esecuzione dell’attività o sulle questioni economiche, in un’ipotesi come quella della guerra? La risposta è no.

Esistono, al contrario, alcune specifiche norme generali che possono essere invocate quando il contratto è “travolto” da circostanze sopravvenute e di carattere eccezionale, nel contesto di una disciplina che però persegue l’obiettivo non già di portare nuovo equilibrio in quel contratto, quanto piuttosto di provocarne lo scioglimento.

Oggi ci concentriamo su un paio di riferimenti legislativi:

  • l’articolo 1463 cc: questa norma prevede che in caso di impossibilità sopravvenuta totale della prestazione (evidentemente non dipesa da alcuna delle parti), l’obbligazione si estingua e colui che avrebbe dovuto adempiere non incorra in responsabilità nei confronti del creditore. Torniamo ad uno dei nostri esempi iniziali. Se l’azienda italiana ha concluso con un’impresa russa un contratto di export di beni di lusso, dopo i Regolamenti UE 427 e 428/22 questa fornitura non potrà più essere onorata in ragione delle restrizioni applicate al Paese destinatario. Tale impossibilità – totale – appare indipendente dalla volontà delle parti, tale da impedire oggettivamente e indefinitamente l’adempimento della prestazione contrattuale. L’avverbio “oggettivamente” significa proprio che una difficoltà soggettiva, ossia di una delle parti contraenti, non ricade nell’applicazione dell’art. 1463 cc. Uno degli effetti più importanti della ricorrenza di un’ipotesi di impossibilità totale che si consolidi come definitiva (siamo nell’esempio appena citato) è quello dello scioglimento del rapporto contrattuale;
  • l’articolo 1256 cc: questa norma, tra l’altro, disciplina ciò che accade quando l’impossibilità della prestazione è solo temporanea. In questa ipotesi, la parte obbligata all’esecuzione di una prestazione non può essere ritenuta responsabile per il ritardo nell’adempimento, ritardo che potrà dunque protrarsi per tutto il tempo in cui si protrarrà l’impossibilità temporanea. L’articolo 1256 cc dice anche altro, ossia il fatto che se questa situazione si trascina per troppo tempo (ossia finché il debitore non possa più ritenersi obbligato all’adempimento oppure finché il creditore perda interesse ad ottenere la prestazione), l’obbligazione si scioglie. É complicato immaginare di calare questa norma in un caso pratico che si adatti alla crisi russo-ucraina, un esempio – più scolastico, a dire il vero – potrebbe essere quello di una restrizione all’export che venga qualificata sin dalla sua introduzione come di carattere temporaneo.

In sintesi, dunque, l’ipotesi che mi pare statisticamente più ricorrente e adatta allo scenario che stiamo analizzando è quella della sopravvenuta impossibilità totale e definitiva della prestazione.  Le conseguenze sono:

-liberazione della parte tenuta alla prestazione,

-nessuna responsabilità per inadempimento

-scioglimento del contratto

-restituzione delle prestazioni già adempiute sino a quel momento (a meno che non si tratti di un contratto a prestazione periodica o continuativa).

Nessuno spazio per impossibilità che riguardino soggettivamente una delle parti, incluse le situazioni di sofferenza finanziaria.

Cosa accade, invece, se il contratto non è disciplinato dalla legislazione italiana? A meno di specifiche pattuizioni, in questo scenario le norme a cui dobbiamo attingere sono contenute nella Convenzione di Vienna sui contratti per la vendita internazionale di beni mobili del 1980. Alla Convenzione hanno aderito – tra i molti Paesi – Italia, Russia e Ucraina. L’articolo 79 prevede una disciplina parzialmente simile a quella italiana, poiché esonera da responsabilità la parte inadempiente che riconduca – dimostrandolo – tale inadempimento ad un impedimento oggettivo, fuori dal proprio controllo ed imprevedibile.

Rimane, infine, un’ultima considerazione di opportunità da condividere.

Come abbiamo visto, i rimedi che il Legislatore propone sono volti a sciogliere il vincolo contrattuale, o nella migliore delle ipotesi (quella dell’impossibilità temporanea) a “congelarne” gli effetti. Rimane tuttavia un’altra strada concessa alle parti, in specie nei rapporti commerciali internazionali. Si tratta dell’introduzione delle clausole di hardship, la cui finalità è quella di rendere l’accordo negoziale permeabile a modifiche e nuove contrattazioni, anche a fronte di eventi assolutamente stravolgenti quale è quello della guerra. Ne ha parlato qualche mese fa la Collega di Studio Avvocato D’Alessio in questo articolo, a proposito di contratti, ri-negoziazioni e Covid19.

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